La cultura di massa ha subito una trasformazione radicale dagli anni Cinquanta a oggi, passando dai primi quiz televisivi come “Lascia o raddoppia?”, che incarnavano un’idea di spettacolo ingenuo e pedagogico, fino al trionfo della televisione-spettacolo con format come il “Grande Fratello”, in cui la vita privata diventa intrattenimento e il voyeurismo si trasforma in un codice comunicativo diffuso. In questo arco di tempo, la televisione non si è limitata a rispecchiare la società, ma l’ha attivamente trasformata, determinando una vera e propria rivoluzione antropologica.
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Negli anni Ottanta, con l’avvento delle televisioni private e la crescita esponenziale dell’intrattenimento commerciale, il piccolo schermo ha assunto un ruolo nuovo: non più soltanto medium educativo o informativo, ma strumento primario di costruzione del consenso e della realtà sociale. Se la televisione del dopoguerra puntava a creare un pubblico di cittadini-consumatori responsabili, la tv commerciale ha inaugurato l’era della spettacolarizzazione della politica, della pubblicità pervasiva e della costruzione di modelli di consumo sempre più standardizzati. L’idea di cultura si è progressivamente fusa con quella di mercato, dove il valore di un prodotto televisivo è misurato esclusivamente in termini di audience e profitti pubblicitari.
Il rapporto tra potere e cultura si è così profondamente modificato. Se in passato la cultura era uno strumento nelle mani di élite intellettuali e politiche per plasmare il tessuto sociale, con l’avvento della televisione commerciale e dei nuovi media digitali il potere ha scoperto l’efficacia della cultura popolare come mezzo di controllo e omologazione. Attraverso la diffusione di programmi sempre più orientati al puro intrattenimento, si è assistito a un progressivo svuotamento del discorso pubblico, ridotto a slogan e narrazioni semplicistiche. Il caso del “Grande Fratello” è emblematico: un format che non solo ha ridefinito i confini tra pubblico e privato, ma ha anche creato un nuovo modo di intendere la celebrità, rendendo il successo accessibile non più attraverso il talento o la competenza, ma per il solo fatto di esistere davanti a una telecamera.
Rivoluzione o involuzione?
La rivoluzione antropologica operata dalla televisione ha portato a un mutamento profondo della percezione dell’identità e del ruolo sociale degli individui. Se negli anni Cinquanta e Sessanta la cultura di massa si basava ancora su un’idea di comunità e di condivisione di valori, dagli anni Ottanta in poi si è affermato un modello più individualista e narcisistico. Il soggetto contemporaneo è costantemente esposto alla necessità di performare la propria esistenza, trasformandosi in un prodotto mediatico da consumare e giudicare.
Con l’avvento del digitale, di internet e delle pay tv, questa dinamica si è ulteriormente amplificata. La frammentazione dell’offerta mediatica ha reso il consumo dei contenuti sempre più personalizzato e on-demand, favorendo una moltiplicazione di narrazioni e identità possibili. Se da un lato la rete ha democratizzato l’accesso alla cultura e all’informazione, dall’altro ha accentuato la polarizzazione, la manipolazione delle opinioni e l’illusione della partecipazione diretta al discorso pubblico.
Il potere oggi non si esercita più attraverso il monopolio della comunicazione, ma attraverso la gestione degli algoritmi e la capacità di orientare l’attenzione e il desiderio collettivo. Il confine tra realtà e rappresentazione è ormai labile, e la società dello spettacolo ha trovato nel digitale il suo apice, trasformando l’individuo non solo in spettatore, ma in merce dentro un sistema senza più regole condivise.